giovedì 25 aprile 2024

Energia, crescita, fossili: un mito in discussione

Stavo per scrivere una riflessione sui falsi miti che la destra europea sta mettendo in circolazione in vista di queste elezioni europee quando mi sono accorto che il bravissimo Mario Agostinelli, mio caro amico e editorialista del Fatto Quotidiano, lo aveva appena fatto. Quindi non mi resta che pubblicare questo suo articolo che condivido totalmente e che vi prego di diffondere il più possibile. 


 


 

 

 

 

 

 

 

Energia, crescita, fossili: un mito in discussione.
Dalla rivoluzione industriale in poi è particolarmente significativo guardare lo stato del mondo in cui viviamo anche attraverso una lente particolarmente ricca di indicazioni e foriera di deduzioni: la lente dell’energia. Un occhiale molto pervasivo e assai potente, che mette a fuoco il rapporto tra umanità e natura nelle sue articolazioni spaziali e temporali, dispensatore di spunti che segnalano le decisioni più improvvide, le diseconomie più nascoste, le pressioni sull’opinione pubblica, gli annunci di novità tecnologiche di là da venire, nell’intenzione, spesso, di mantenere il Pianeta in uno stato di perenne transizione, senza uno sbocco definitivo dalla geopolitica alla biosfera.
Eppure, si sono esplicitati in più occasioni tentativi di grandi pensatori di rimettere al centro non la materia inanimata, ma la vita. Non solo nei tempi passati, ma anche nel pieno delle rivoluzioni scientifiche più recenti. Varrebbe la pena ricordare come Erwin Schroedinger già nel secolo scorso avesse cercato di rendere ragione degli eventi spazio-temporali che si verificano entro i limiti spaziali di un organismo vivente, precisando formulazioni sulla natura fisica dei geni, fatte dieci anni prima della scoperta della struttura a doppia elica del Dna. 

Egli affrontava con coraggio un apparente paradosso: che il gene fosse rappresentato da un numero molto ridotto di atomi “materiali”, che mantengono in modo stabile l’informazione ereditaria attraverso le generazioni lungo i secoli. In sostanza, già la quantistica apriva la strada a unificare mondo materiale e vita e, quindi, a rivalutare i processi energetici compatibili non solo con la trasformazione dell’ambiente artificiale, ma come interagenti tutt’altro che passivi nella trasmissione della vita, dell’evoluzione, della sopravvivenza. Successivamente e per un lungo periodo, la fisica si è staccata dalla biologia e si è impegnata nell’espansione della potenza distruttiva della fissione o della fusione atomica, perdendo di vista la continuità tra la densità energetica utile alla distruzione e quella molto più cruciale indispensabile alla sopravvivenza.
In questo più recente quadro i conflitti armati, la crescita dell’ingiustizia sociale,
l’arretramento della democrazia, la sottovalutazione della spesa pubblica per arginare la crisi climatica, ereditano il pericoloso lascito della razionalità geopolitica sbocciata dopo la fine della Seconda guerra mondiale, che aveva creato grandi drammi ad Einstein e perfino ad Oppenheimer, ma non certo ai governanti anglo-americani e sovietici in competizione di potenza.
 

La proliferazione del nucleare e la diffusione dell’Intelligenza Artificiale

Ad ora, purtroppo, la proliferazione dell’ordigno termonucleare e l’accelerata diffusione della Intelligenza Artificiale (IA) caratterizzano e mettono a fuoco il passaggio ad un’era in cui la sopravvivenza biologica del vivente e il libero arbitrio dell’umano vengono nuovamente posti a rischio dalla disponibilità di enormi densità energetiche, create artificialmente in funzione di un potere incontrollabile e divorante, oscurando quanto avvenuto ad Hiroshima e Nagasaki ed in contrapposizione con i processi di energia minima che caratterizzano il mondo naturale. Un sistema, quello naturale, che si autoriproduce e si conserva, generazione dopo generazione da milioni di anni.

In continuità con le sfide che l’umanità dai primi del secolo scorso aveva affrontato e indagato con le bizzarrie del comportamento dell’infinitamente piccolo (particelle
subatomiche sottoposte a campi di forza prima inimmaginabili), ora ci si sta spingendo a scoprire come l’applicazione del calcolo a numeri immensamente grandi di dati (la sostanza dell’Intelligenza Artificiale) possa costituire una risorsa per l’automazione dei processi produttivi, la riparazione di quelli biologici e, soprattutto, la previsione dei comportamenti politici e sociali futuri di contendenti in competizione, anziché in cooperazione. La matematizzazione del contenuto dell’universo intero è un tentativo pericolosamente in atto, in cui spazio, tempo e causalità sarebbero modellati da algoritmi potentissimi che operano su data center stipatissimi, con un impiego incalcolabile di energia elettrica di alimentazione e con la presunzione di descrivere e gestire la permanenza - ovvero la rappresentazione stabile - degli oggetti sotto osservazione e controllo continuo.
L’attuale passaggio d’era – se non monitorato o, addirittura in alcuni aspetti neutralizzato - richiederebbero un tale dispendio energetico da avvicinarci al collasso della biosfera.
Benjamin Labatut, un divulgatore scientifico molto apprezzato, raccomanda “di prestare attenzione a come da fine del secolo scorso si sia oltrepassato un confine: come se un genio si fosse annidato nelle scienze e le generazioni future non fossero più riuscite a rimetterlo dentro” (1).

Senza arrivare al suo allarmismo, dobbiamo tuttavia registrare come la turbolenza politica ed economica torna a dilaniare L’Europa, il Medio Oriente e non solo, mentre i blocchi contrapposti tornano ad affidare a tecnologie ad altissima intensità energetica le sorti dei loro conflitti. Intanto – direi troppo sommessamente - le popolazioni mondiali svoltano verso le fonti rinnovabili ed a potenza regolabile e diffusa, mentre guerre e – come vedremo più avanti – l’IA, premono per la procrastinazione del tempo dei fossili e del nucleare, oscurando la prospettiva di pace al fondo di quella democrazia sociale che aveva trovato nell’Onu e nelle costituzioni postfasciste un terreno di possibile
realizzazione.
 

2023: un anno sismico per il clima
Secondo il Global Carbon Budget 2023, elaborato dall’Università di Exeter nel Regno Unito, quest’anno le emissioni di CO 2 sono aumentate dell’1,1% rispetto al 2022 e dell’1,4% sul 2019, anno di prepandemia (2).

A quasi dieci anni dalla Cop 21 di Parigi (2015), non arriviamo ancora a tagliare significativamente l’inquinamento legato al consumo di combustibili fossili (petrolio, gas naturale e carbone).
Eppure, nuovi segnali provenivano dall’anno del Covid 19. Invece, negli anni seguenti e pur in un quadro di produzione industriale più debole, un’estesa siccità e il precipitare delle guerre hanno in parte attenuato l’effetto combinato di una più larga diffusione delle energie rinnovabili e di una consistente fuoriuscita dal carbone e dal gas. Per la prima volta, almeno metà della produzione di elettricità nelle economie avanzate è arrivata da fonti a basse emissioni, sottoponendo gli incerti passi verso la transizione all’energia pulita ad una serie di stress test che ne hanno dimostrato la resilienza. Un avanzamento ancora insufficiente e contrastato, che non basta affatto, anzi!

Novanta istituzioni di tutto il mondo, tenendo conto anche delle emissioni provenienti dall’azione umana di deforestazione in diverse aree, concordano nel notificare entro la fine del 2023 una quantità totale di CO 2 immessa in atmosfera pari a 42 miliardi di tonnellate.
Una cifra che comporta il raggiungimento di 419,3 parti per milione (ppm) di CO 2 in atmosfera, equivalente al 51% in più rispetto ai livelli preindustriali.
Lo stesso documento ha registrato anche i dettagli di questo innalzamento: l’anno appena trascorso conteggia un incremento delle emissioni di CO 2 dovute al petrolio del +1,5%; al carbone del +1,1%; al gas naturale del +0,5%. Anche se, per quanto riguarda grandi emettitori pro-capite, come Stati Uniti ed Unione europea, il 2023 segnala, rispettivamente, un -3% e un -7,4%: ma non ci possiamo consolare, perché alla Cop di Parigi la loro quota di riduzione era prevista almeno tre volte tanto.
Con il bilancio dell’anno appena terminato, la Terra è sicuramente destinata a superare la soglia di 1,5 °C all'inizio del 2030, anziché a fine secolo. Siamo, in definitiva, di fronte ad un autentico evento sismico per il clima, che obbligherà ad affrontare sfide e costi ancora maggiori nel prossimo decennio.
Prevenire ogni ulteriore aumento del riscaldamento è quindi decisivo qui ed ora: per le persone e la natura. Più le temperature aumentano, più bruschi saranno gli impatti dei cambiamenti climatici e più alto sarà il rischio di punti critici (tipping points (3) e di conseguenze irreversibili sugli ecosistemi, nonché sulle vite ed i mezzi di sussistenza delle persone.
Risulta quindi fondamentale raggiungere il picco delle emissioni globali di gas serra non più in là del prossimo anno, per poi ridurle di almeno il 43% entro il 2030. Ma per un’azione siffatta, in grado di trasformare le economie, i sistemi energetici ed alimentari, nonché di proteggere e ripristinare la natura – perché di tanto si tratta - occorre adottare una velocità ed una scala dimensionale senza precedenti. Una velocità ed una scala non certo a portata di mano, perché ostacolate senza sufficiente reazione da un negazionismo duro a recedere ed addirittura esplicitato ai più alti livelli alla ultima Cop28 di Dubai.
Ci avviciniamo così a quello che si può definire un sisma climatico, partendo da una
situazione tutt’altro che favorevole, in cui la diffusione ancora insufficiente dell’energia pulita rimane eccessivamente concentrata nelle economie avanzate e in Cina, indicando pertanto una necessità di maggiori sforzi internazionali e la più pressante sollecitazione per l’autorizzazione di nuovi impianti da fonti rinnovabili, che invece vengono ritardati colpevolmente, come accade ormai di norma nel nostro Paese.


Il complesso tema dell’agricoltura
Intanto, sta emergendo con decisione la questione controversa e sottovalutata dell’impatto dell’agricoltura sul clima. Da questo punto di vista, la cancellazione degli obiettivi di riduzione dei concimi che provocano gas climalteranti e il ritiro del Regolamento SUR (4) per la riduzione dell’uso dei pesticidi da parte della Commissione europea costituiscono un grave colpo alle strategie del Green Deal, alla tutela dell’ambiente e della salute dei cittadini. La siccità sia diventando un fenomeno permanente, insieme alle piogge erratiche, e la fertilità dei suoli agricoli sta scomparendo. “Fateci produrre senza condizionamenti” sembrava la parola d’ordine della “rivolta dei trattori”, ma se le politiche pubbliche continueranno a sostenere il modello industriale, quello che mette a disposizione dell'industria agroalimentare materie prime a basso costo per rendere competitivo il made in Italy, allora le risorse andranno a beneficio di chi diventa competitivo tagliando la componente del costo di produzione più flessibile: il costo del lavoro.
Va messo in rilievo che la sola agricoltura a livello globale contribuisce al 22% delle
emissioni dei gas climalteranti (il 9% a livello di Unione europea e il 7% a livello italiano).
Se calcoliamo tutte le emissioni dell’intera filiera agro-alimentare, il contributo stimato a livello globale può arrivare al 37%. In Europa e in Italia, l’agricoltura è la principale causa di perdita degli habitat naturali e delle specie selvatiche: si stima che negli ultimi 30 anni si sia perso il 70% della biomassa di insetti volatori, la maggior parte impollinatori, che garantiscono l’80% della produzione agricola. 5
In Italia nel 2021 sono stati venduti oltre 50 milioni di kg. di sostanze chimiche per
l'agricoltura, e il nostro Paese si colloca al terzo posto in Europa, dopo Spagna e Francia, per vendita di prodotti fitosanitari. Gli effetti del cambiamento climatico e della perdita di biodiversità stanno già causando impatti devastanti sui raccolti ed i mezzi di sussistenza in tutto il mondo, dove la dipendenza dai fossili si mantiene decisiva, in quanto l’attività agricola è diventata incredibilmente efficiente utilizzando grandi attrezzature meccaniche, di solito alimentate a diesel, insieme a una serie di prodotti chimici, tra cui erbicidi, insetticidi e fertilizzanti. Abbandonare l’agricoltura delle multinazionali significherebbe che gli agricoltori dei paesi ricchi vivrebbero usando pochissimi combustibili fossili, o che le loro popolazioni contadine si assimilerebbero alle popolazioni indigene e contadine dell’America Latina, dove il tempo di lavoro è principalmente dedicato alla cura della terra. Uno scenario oggi inimmaginabile, ma in prospettiva necessario, se collocato nella società minacciata dal clima. Le aziende contadine escluse dai fondi della politica agricola comune o dai fondi aggiuntivi del Pnrr, ma che hanno avviato la transizione ecologica, sono passate al biologico da trent'anni, hanno inventato i mercati contadini, l'agriturismo, la conservazione della biodiversità, hanno condotto la battaglia per liberare l'agricoltura dagli Ogm: eppure non hanno rappresentanza
istituzionale.
Il greenwashing nasconde abilmente la quota fossile
La transizione energetica sta cambiando radicalmente il modo in cui operano le
compagnie petrolifere e del gas; con il calo della domanda di combustibili fossili, i
tradizionali segmenti di business di idrocarburi diventerebbero rapidamente obsoleti.
Ma poiché il capitalismo è profondamente dipendente dai fossili e dato che gli Stati Uniti, in quanto nucleo centrale, sono intrinsecamente dipendenti dal petrolio e dal gas di cui non possono e non vogliono sbarazzarsi, è in atto una grandiosa opera di mascheramento - di greenwashing - lungo tutto l’arco dei processi che arrivano dal pozzo di estrazione fino alla vendita del combustibile finale sul mercato.
L’esperta di energia Gail Tverberg sostiene che l’attuale sistema si basa ancora sui
combustibili fossili, che vengono utilizzati in ogni genere di attività, da Internet alla produzione di pannelli solari, dalla costruzione di edifici all’estrazione di materie prime e al trasporto di merci e che il loro contributo viene virtualmente sottratto all’attenzione rendendo seducenti le caratteristiche dei prodotti finali immessi sul mercato (auto semiautomatiche, telefonini multifunzione, elettrodomestici controllabili a distanza etc.) anziché sull’intero ciclo di vita degli stessi. Un percorso, quest’ultimo, che incorpora impunemente una quota assai rilevante di combustioni di materiali fossili inquinanti (5).
Insomma, del petrolio non ci possiamo liberare perché desideriamo merci che ne
incorporano inevitabilmente le proprietà nel percorso di produzione e, talvolta, come nel caso della mobilità, direttamente all’atto di funzionamento. Quanto petrolio c’è, ad esempio, nella bottiglia della più virtuosa delle acque minerali?
Questa è forse la forma più insidiosa di greenwashing, più sottile e meno rilevabile di quella tradizionale di sequestrare la CO 2 sottoterra o di immettere idrometano nelle condotte predisposte per il gas.
Jean Baptiste Fressoz, intervistato da il Manifesto (6) in relazione a un suo recente saggio che ha fatto molto discutere in Francia, ma di cui non vi è ancora la traduzione in italiano, invita ad abbandonare la retorica sui temi energetici in quanto “le varie fonti sono in simbiosi fra loro” e nessuna fonte nella storia è diventata realmente sostitutiva di quella precedente, che continuerebbe in valore assoluto a mantenersi sui livelli passati, se non altro per portare a compimento la costruzione degli impianti che funzionano con le nuove fonti sostitutive. Anche questa affermazione è, a mio avviso, un’operazione che fa comodo all’industria ed ai governi che rigettano la conversione ecologica, perché così possono fare credere e accettare che la crisi climatica possa o debba avvenire prima della transizione alle fonti sostitutive necessarie per evitarla, e, di conseguenza, si possa continuare per inerzia a non rivoluzionare il paradigma energetico dalle fondamenta, in attesa magari di nuove mirabolanti tecnologie di là da venire e tali che risolvano il problema senza un abbandono strutturale del sistema capitalistico e della crescita che ci hanno condotto al punto attuale.
C’è da chiedersi perché ci si riserbi, anche a sinistra, una certa esitazione per quanto riguarda la conversione energetica: la più profonda, con l’impiego solo delle energie rinnovabili ed un radicale contenimento dei consumi. La ragione sta anche nel fatto che parte del potere del sistema oggi risiede nella promozione di un ecologismo che non mette in discussione il capitalismo e crede in una tecnologia progressista, come vengono definite sia la versione del nucleare di nuova generazione, che la fusione, o, ancora, la cattura in atmosfera o sottoterra degli inquinanti in eccesso.
 

I nuovi ostacoli alla conversione: la crescita dello shale gas
Ovviamente, non va per la maggiore solo il greenwashing, ma ci sono ben altre frecce a disposizione dei negazionisti e degli avversari alla conversione energetica. ReCommon documenta alcune palesi contraddizioni: la BP si è impegnata a ridurre le emissioni derivanti dalla produzione e dall’uso dei suoi prodotti del 35-40% entro il 2030, ma il 30% del pacchetto retributivo totale dei suoi dirigenti viene determinato da obiettivi che  incentivano direttamente o indirettamente la crescita della produzione. E, per non rimanere all’asciutto, Eni, Total-Energies e Repsol hanno promesso tagli del 30-35% entro il 2030, mentre i loro obiettivi di crescita presentati nei piani industriali pluriennali determinano, rispettivamente, il 18%, 15% e 12% di aumento della estrazione di gas.
Anziché incentivi di crescita delle retribuzioni dei manager, offerti spesso sotto mentite spoglie, gli azionisti dovrebbero chiedere incentivi che diano priorità al valore, rispetto alla crescita dei volumi di petrolio e gas. Proteggerebbero così i loro investimenti, mentre prende avvio un’autentica conversione energetica, che sta già premiando a breve e nel lungo periodo il mercato dei green bonds.
Global Vision Market (7), ha pubblicato una ricerca sul mercato di gas da scisto tra il 2023 e il 2030. Un mercato che supera i principali segmenti di business in atto ed evidenzia aree geografiche di livello assai più ampio e distribuite in tutti i continenti. Il rapporto, che fornisce dettagli utili sullo stato attuale e sull’espansione futura prevista del settore, utilizza sia approcci primari che secondari alla raccolta dei dati.
Considerando attentamente fattori economici, sociali, ambientali, tecnologici e politici vengono fornite indicazioni sulle entrate e sulle vendite per ogni regione e paese, raccolti attraverso una ricerca completa dal Nord America (Stati Uniti, Canada, Messico), all’Europa (Germania, Regno Unito, Francia, Italia, Russia, Spagna, Resto d’Europa), all’Asia-Pacifico (Cina, India, Giappone, Singapore, Australia, Nuova Zelanda), al Sud America (Brasile, Argentina), al Medio Oriente e all’Africa (Turchia, Arabia Saudita, Iran, Emirati Arabi Uniti, Africa, Resto del Mea). Da questo report si deduce che in futuro lo shale gas sarà un temibile concorrente su scala planetaria, indipendentemente dall’impatto ambientale terrificante già registrato negli Stati Uniti ed in Canada. Una mappatura così ampia tiene conto esplicitamente non solo dell’instabilità del mondo attuale, bensì anche della possibilità che i vari segmenti di mercato vengano influenzati da probabili pandemie o da scontri armati.
La ricerca rivela che l’Europa è diventata il principale mercato di esportazione per
l’industria statunitense del Gnl da scisto. Si sottolinea anche che il continente era così preparato per questa stagione invernale rispetto alle precedenti, da aver indotto i Paesi dell’Ue ad aumentare gli acquisti di gas naturale liquefatto da fornitori di shale gas da varie regioni del pianeta, rifornendo in anticipo di carburante i loro impianti di stoccaggio e consentendo così margini significativi di extraprofitti.


L’incognita dell’idrogeno
Molti operatori nella filiera del metano hanno sposato con entusiasmo le strategie
sull’idrogeno delle più grandi istituzioni mondiali: dall’Agenzia internazionale dell’energia (Iea) al Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici (Ipcc) delle Nazioni Unite, dall’Ue agli Usa. L’idrogeno verde è sicuramente una componente della transizione, purché se ne valutino appieno le qualità. Sia sul piano dell’offerta, che dell’efficienza e della domanda che dovrà soddisfare.
A prescindere dall’applicazione specifica, l’uso dell’idrogeno come carburante o
combustibile è intrinsecamente poco efficiente perché richiede un doppio impiego di energia: il primo per scindere le molecole di metano, carbone, petrolio o acqua in idrogeno e il secondo per trasformare di nuovo l’idrogeno, così ottenuto, in energia termica tramite caldaia o in energia elettrica tramite una turbina. Questi doppi processi provocano perdite a ogni conversione, con un’efficienza energetica di andata e ritorno compresa fra il 18% e il 46%, secondo la Ieefa (8) .
Risulta in ogni caso utile nella riduzione dei rottami e dei minerali ferrosi nei forni ad arco per l’acciaio e nella produzione di ammoniaca per l’industria agricola e chimica. Occorre inoltre ricordare che il 25% dell’idrogeno mondiale oggi è usato per la raffinazione del petrolio in benzina e gasolio e si tratta nella quasi totalità di provenienza da metano: quindi, non si tratta, per lo più, di idrogeno verde. Con la diffusione della mobilità elettrica, buona parte di questa fonte di domanda per la raffinazione sparirà, sebbene sia in fase di progresso il suo impiego nelle celle a combustibile sia per i treni che per i veicoli pesanti, mentre per la propulsione navale ed aerea rimane il combustibile più interessante.
L’economia dell’idrogeno, nonostante la sua sostenibilità energetica climatica ambientale ed economica sia sottoposta ad un esame approfondito, rimane indispensabile per alcuni casi particolari di riconversione, ma ad oggi si procede con maggiore prudenza rispetto al passato, dato che le sue potenzialità sull’intera catena del valore sono ancora da testare per un contributo significativo e permanente.


Il ritorno del nucleare
A fronte della crisi del clima l'energia nucleare continua ad essere l'opzione più costosa e lenta per raggiungere le emissioni zero nette. Nonostante ciò, a Dubai, con un accordo tra 22 Paesi, si è fatta strada l'idea di triplicare l'energia nucleare, con un invito agli azionisti della Banca mondiale, alle istituzioni finanziarie internazionali e alle banche di sviluppo regionale ad incoraggiare la sua inclusione nelle loro politiche di prestito. La Francia continua ad essere capofila di un allargamento della quota di energia dipendente dall’atomo, nonostante abbia dovuto ammettere che nel 2022, per la prima volta dopo oltre 40 anni, l’intero Paese era diventato un importatore netto di energia elettrica, a causa di una produzione limitata del suo nutritissimo parco, messo in stallo dalle anomale ondate di calore estive.
Sotto la spinta della leadership industriale legata ad Edf, la stessa Francia ha promosso in sede europea un’iniziativa per aumentare la cooperazione industriale in campo atomico.



Ad essa hanno aderito altri dieci Stati membri: Bulgaria, Croazia, Ungheria, Finlandia, Olanda, Polonia, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia e Slovenia. In quell’occasione il governo italiano si è mantenuto defilato, ma non ha perso l’occasione di riesumare a metà 2023 un dibattito spento da ben due referendum, presentando alla Camera una mozione che impegna il governo “a partecipare attivamente, in sede europea e internazionale, a ogni opportuna iniziativa, sia di carattere scientifico che promossa da organismi di natura politica, volta ad incentivare lo sviluppo delle nuove tecnologie nucleari (IV generazione, fusione nucleare) destinate alla produzione di energia per scopi civili” (9). Un invito subito raccolto con una lettera di intenti firmata da Edf, Edison, Ansaldo Energia e Ansaldo nucleare “per collaborare allo sviluppo del nuovo nucleare in Europa e favorirne la diffusione, in prospettiva anche in Italia”.
Se prima ritenevo questo improvviso ritorno di interesse un puro diversivo per posticipare le autorizzazioni dei nuovi impianti a fonti rinnovabili, ora mi riferisco, con maggior preoccupazione, a due fatti di rilievo.
Dapprima, una affermazione di Frank Bogovič (che ha sostituito Timmermans come
commissario Ue al clima) che ha esplicitamente sostenuto “l’affidabilità degli Smr (i piccoli reattori modulari) per aumentare la produzione di energia in qualità di nodi di rete elettrica a sostegno di solare e fotovoltaico, cui ha fatto eco il ministro italiano Pichetto Fratin auspicando la realizzazione di partnership internazionali pubbliche e private per lo sviluppo del nucleare di ultima generazione.
Successivamente, nel marzo del 2024, e con una caratura assai più pesante, è stata
approvata dalla maggioranza a Montecitorio una mozione che prevede una indagine conoscitiva sui possibili vantaggi dell’energia nucleare, che potrà entrare in quota nel mix energetico nazionale per raggiungere gli obbiettivi climatici. Significativo, al riguardo, l’avvertimento dell’onorevole Luca Squeri di Forza Italia: "l'approvazione dell'indagine è lo step per un'operazione che ha finalità ben precise: un confronto scevro da quelle pulsioni ideologiche e quei pregiudizi che per troppi anni hanno condizionato il dibattito sul nucleare” (10) . Ne ho già in parte trattato nel precedente numero di questa rivista, ma qui vorrei mettere a fuoco una riflessione su quella che, sul sito web di Edf, viene definita “una soluzione flessibile per diverse esigenze, non solo per la produzione di elettricità, ma anche per l’energia termica (ad esempio per reti di teleriscaldamento) e per produrre idrogeno”: in sostanza i piccoli reattori modulari (Smr).
Si è aperto quindi uno spiraglio ed individuata una rotta e sono gli Smr il vero centro di attenzione. Il focus è sui piccoli reattori modulari Smr Nuward, riguardo i quali Edf e Ansaldo nucleare - spiega una nota congiunta - hanno recentemente firmato un primo contratto per la fornitura di studi di ingegneria per questo tipo di impianti, definiti complementari allo sviluppo delle fonti rinnovabili e con possibili applicazioni anche per alimentare distretti industriali a elevato consumo energetico.
Strano che questo riaccostamento all’atomo non abbia suscitato clamore, anche perché si può intravvedere dietro ad esso una pericolosissima soluzione di sostegno alla grande richiesta di elettricità dovuta ai consumi dei data center per l’Intelligenza Artificiale.


Smr e IA: l’ennesima formula per la crescita
Sulla transizione energetica il nostro governo procede per annunci, spesso contradditori e quasi sempre proiettati in decenni successivi alle scadenze cui saremmo chiamati a rispondere riducendo l’impatto climatico del nostro sistema. Sia che si trattasse della fusione nucleare con cui imitare il sole, che del piano Mattei con cui ricolonizzare il sud del Mediterraneo o, infine, dell’”hub europeo” creato per raccattare e sequestrare la CO2 emessa dai residui turbogas rimasti in Europa, non c’è proposta di politica energetica che ci abbia riabilitati come diligenti esecutori del Green Deal Ue, o, nemmeno, di quello che rimane dopo della svolta del Partito popolare europeo (Ppe). (9)

Di fatto, rientriamo volentieri nell’alveo della “ritirata” della Von der Leyen, timorosa di essere danneggiata dalla “frenesia verde” (secondo la “grammatica” di Vox, Fpoe, Fidesz e Afd) che l’aveva fatta conoscere come alfiere delle rinnovabili, invise alle destre europee in crescita nei sondaggi e, insieme, oppositrici di qualsivoglia inclinazione ecologista.
Così sta prendendo piede con un protagonismo italo-francese, cui ho accennato sopra, una rinascita dell’atomo, oltre alla ostinata permanenza del metano. In definitiva: qualsiasi soluzione, purché, in una penisola ricca di sole, di bacini di stoccaggio e di vento che spira sui mari che la contornano, si lasci a languire la possibile riconversione della seconda manifattura d’Europa verso il sistema delle energie rinnovabili.
Vale la pena a questo punto di inquadrare lo sviluppo (quasi sottotraccia) di questa nuova tecnologia – i piccoli reattori modulari - che ha tutta l’apparenza di una chiamata alle armi.
Mentre si vorrebbe che l’intelligenza artificiale generativa (IA) diventasse la vera figlia dell’umanità atta a risolvere ogni sorta di problemi, ci si rende conto che se ne può fruire solo al prezzo di un enorme consumo di elettricità, possibilmente a ridotte emissioni di gas climalteranti. Solo così non ci sarebbe collisione tra aumento dei consumi e peggioramento del clima. E qui spunta l’illusione del nucleare di piccola taglia, con ridotte emissioni di CO 2.
Di conseguenza, sotto il profilo delle emissioni, lo sviluppo dell’IA meglio si attaglierebbe alla proliferazione di reattori minori (attorno ai 400 MW) che assicurerebbero la fornitura di elettricità 24 ore su 24 e 7 giorni su 7 agli innumerevoli data center in cui vengono conservati i cloud con i big data ed alimentati i chip di ultimissima generazione. I consumi di energia per l’IA sono stati finora trascurati, ma l’aumento medio per l’elaborazione e il raffreddamento dei sistemi ad apprendimento automatico è valutato dell’ordine del + 43% rispetto agli analoghi sistemi di computazione tradizionale. Ad oggi si stima che i data center consumino tra l’1 e il 2% dell’elettricità mondiale, ma l'ascesa di strumenti come ChatGPT innesca già previsioni di un consumo elettrico globale che potrebbe aumentare di cinque volte.
Nel panorama attuale L’intelligenza Artificiale è considerata la strategia decisiva per la quarta rivoluzione industriale e per la potenza delle forze armate. I data center delle compagnie di informatica potrebbero quindi diventare un segmento di mercato significativo a livello globale per gli Smr nei prossimi decenni e, non a caso, sono oggetto di ricerca e di prototipizzazione da parte anche delle imprese leader dell’informatica proprietaria, in particolar modo negli Usa, in Inghilterra, Belgio, Taiwan e Giappone.
Ma i problemi si rivelano ben più ardui da superare, a partire da una diffusione pervasiva di scorie nucleari sul territorio. Analogamente a quanto è avvenuto nel settore chimico, dovremmo fare i conti con un controllo altrettanto capillare, ma con una variante di tossicità e di militarizzazione impressionanti. Peraltro, in uno studio della Stanford University intitolato “Nuclear waste from small modular reactors”, si rivela che i progetti Smr, comparati con i Pwr a scala di Gigawatt, aumenteranno i volumi equivalenti dei rifiuti nucleari, che necessitano di gestione e smaltimento. Addirittura con il volume dei rifiuti ad alta attività che aumenterà di un fattore 30. E poiché le proprietà del flusso di rifiuti sono influenzate dalla fuoriuscita di neutroni dal nocciolo ridotto, gli Smr aggraveranno anche le problematiche legate allo smaltimento degli impianti a fine corsa.


IA + Smr, quindi. L’ennesima formula per mantenere la crescita competitiva e, perlopiù, nelle mani di pochi. Che ne sarà del clima, della democrazia e della giustizia sociale, alla base, altresì, di uno sviluppo cooperativo e integrato nella biosfera come quello sostenuto dalle comunità energetiche?
 

Il Green Deal all’appuntamento delle elezioni europee
Prima lo hanno smantellato dal regolamento sui pesticidi fino alla direttiva sulla qualità dell’aria. Ora si fa di più. Perché lo stravolgimento di quello che fu il Green Deal europeo, viene assimilato da un programma elettorale. Quello del Partito popolare europeo in vista delle prossime elezioni. Il documento è la cancellazione delle promesse fatte da Ursula von der Leyen, che però verrà ricandidata. Si tratta dell’evidente tentativo del Ppe di recuperare voti promettendo normative più permissive sull’ambiente. Il rallentamento, fin quasi al suo smantellamento, è iniziato da tempo e per lo più si è svolto in silenzio. Già Emmanuel Macron aveva per primo chiesto una pausa normativa, fino a ottenere, con il consenso della Commissione, ulteriori battute d’arresto e ad arretrare sistematicamente.
Sulla sostenibilità Bruxelles ha mollato la presa man mano che si avvicinavano le elezioni europee. Proviamo a procedere per punti.

Il pacchetto definito “Farm to Fork” è stato modificato dai sistemi alimentari sostenibili alle etichettature di sostenibilità. Si è posto lo stop alla proposta di regolamento sull’uso sostenibile dei pesticidi chimici in agricoltura, anche conosciuto come “Sur”, che indicava ai Paesi membri di identificare alternative ecologiche.
L’obbligo di lasciare a riposo il 4% dei campi per accedere ai fondi europei è stato
sostituito con la possibilità che si possano coltivare piselli, fave o lenticchie o comunque colture a crescita rapida.
Negli obiettivi di riduzione delle emissioni inquinanti al 2050 è scomparsa la riduzione del 30% entro il 2040 dei gas serra agricoli (rispetto ai livelli del 2015). Gli obiettivi del 2030 vengono spostati al 2040.
Nuove norme al ribasso sono state introdotte per ridurre le emissioni del trasporto stradale di autovetture, furgoni, autobus, camion e rimorchi. E’ stata modificata la proposta iniziale sul regolamento “Euro 7”, concordando di mantenere le attuali condizioni di prova Euro 6 e i limiti sulle emissioni di scarico per auto e furgoni.
Il regolamento sugli imballaggi è stato fortemente annacquato su pressione delle lobbies di plastica e carta (10).
Sono stati inseriti nella cosiddetta “tassonomia”, quindi considerati “investimenti
sostenibili”, due settori assai controversi: il gas e il nucleare (in forma di mini-reattori) e si è data via libera allo sviluppo della tecnologia Ccs (cattura e sequestro di CO 2) Il raggiungimento per gli edifici residenziali almeno della classe energetica E entro il 2030, e della D entro il 2033 è affidato ai singoli Paesi membri, con l’obiettivo, ancora contrastato, di arrivare nel 2050 a emissioni zero.
È stata infine rimandata a tempo indeterminato la direttiva dell’Unione europea sul dovere di diligenza in materia di sostenibilità aziendale, che riguardava i temi ambientali, il cambiamento climatico e i diritti umani.(11)

E’ in atto una svolta dell’opinione pubblica sul clima?
Un’evoluzione profonda si è verificata nelle idee delle persone che a vari titoli si occupano del clima e su come interpretare e di conseguenza gestire il fenomeno.
Partiamo dagli attivisti. Mentre la prima generazione di fine anni Ottanta era convinta che il problema si potesse risolvere in maniera razionale: i paesi industrializzati avrebbero capito il problema, gli scienziati avrebbero proposto la soluzione, i governi avrebbero concordato e poi implementato un accordo simile a quello di Montréal sul buco dell’ozono, man mano che gli studiosi della trasformazione energetica, i decisori nei vari ambiti e i cittadini hanno capito che non si trattava di eliminare qualche gas nocivo per l’atmosfera dalle bombolette spray, lo scenario si è fatto più complicato. Si trattava, in effetti, di unprofondo stravolgimento strutturale, tecnologico, economico, sociale e culturale,
condensato nella sfida di uscire dal fossile in tutto il mondo. Il che, avrebbe coinvolto le forme di produzione e di vita in tutte le loro articolazioni.
Salvare il clima e, ancora di più, l’adattamento al caos climatico, sono diventate
consapevolmente anche questioni di giustizia climatica, di gender, di lotta contro
l’imperialismo e il capitalismo divoratore, di coltivare la pace. In fondo, chi parla del clima non può tacere sulle grandi ingiustizie del mondo che, ancora più nel Sud che nel Nord, si sta aggravando. Questa conseguenzialità, secondo Karl Schibel (12), potrebbe però indebolire la lotta all’emergenza climatica, dato che “è vero che i cambiamenti climatici colpiscono dapprima e più intensamente il Sud del mondo e i poveri nel Nord, ma è anche vero che gli impatti del riscaldamento globale, più prima che poi, mandano in fiamme anche le ville al Lake Tahoe in California”. E, dato che il caos climatico è una minaccia esistenziale per tutta l’umanità, andrebbero messe da parte illusioni messianiche di volere eliminare al contempo tutti i mali che affliggono questo mondo.


Contro l’ingiustizia climatica e contro la guerra
Non credo che si possano separare le lotte che riguardano contemporaneamente clima, guerra nucleare e ingiustizia climatica. In questo senso è esemplare il messaggio e la comprensione della Laudato Sì che Bergoglio ha diffuso quasi dieci anni fa. E non può essere un caso che le destre di ogni parte del Pianeta siano sia negazioniste che repressive nei confronti degli attivisti climatici che vengono definiti “ecoterroristi”. Basta riflettere in una prospettiva non settoriale per rendersi conto di come l’onda lunga della repressione del cd. ecoterrorismo sia arrivata anche in Europa.
I difensori dei diritti umani, secondo la definizione contenuta nella Dichiarazione delle Nazioni Unite, sono anche tutti coloro che, a titolo individuale o collettivo, si impegnano per il rispetto dei diritti dell’ambiente attraverso pratiche nonviolente. Il fatto che in Italia il governo Meloni abbia fatto approvare un disegno di legge ad hoc che inasprisce le pene pecuniarie e di detenzione per attivisti ed attiviste che svolgono azioni dirette nonviolente in musei, o verso i monumenti, rende conto di come le azioni della destra si muovano intenzionalmente per scoraggiare chi tutela e promuove diritti climatici, ormai del tutto inscindibili dai diritti umani. “Secondo l’art. 21 dell’Onu e in base alla convenzione europea (12)  sottoscritta ad Aarhus, lo Stato ha l’obbligo di rispettare e proteggere il diritto di impegnarsi nella disobbedienza civile pacifica, indipendentemente dal fatto che avvenga all’aperto, al chiuso, online o in spazi pubblici o privati” (13) .
Non stupisce pertanto che il relatore speciale Onu per i difensori dell’ambiente stia
seguendo con grande preoccupazione ed attenzione la situazione in Italia (come nel caso del decreto “ecovandali”) ed in altri paesi europei, anche quando essa è gestita come disincentivo ad agire, pregiudicando il diritto alla libertà di associazione.

La torsione repressiva contro attivisti che usano modalità di disobbedienza civile pacifica, l’inasprimento delle pene comminato con provvedimenti recentissimi, il regresso dell’ispirazione non mediabile del Green Deal europeo, danno ragione – a mio parere – alle forze che rappresentano l’orizzonte dell’umanità minacciato da un intreccio di emergenze esiziali, tutte legate allo scarto tra mancanza di controllo sociale delle nuove tecnologie, riduzione degli spazi democratici e un antropocentrismo duro a morire. Per il progresso, inteso senza principio di precauzione non c’è cura. Ho la sensazione che questa percezione di separazione tra la vita umana e quella dell’ambiente stia penetrando ad un livello popolare ancora inespresso politicamente, ma potenzialmente maggioritario, nonostante ogni sorta di deviazione a cui il mainstream si presta alacremente.
Diventerà sempre più stringente una correlazione tra il rispetto del diritto a difendere l’ambiente e la salute pubblica, del diritto a mobilitarsi per contribuire all’adozione di effettive ed efficaci politiche di contrasto ai cambiamenti climatici e la battaglia per la pace e la giustizia sociale su scala globale.
Da questo punto di vista credo siano di grande interesse i segni di risveglio del continente africano. Si è svolto l’estate scorsa un importante convegno dell’Africa Investment Forum (Aif), in cui dodici nazioni prendevano atto che l'Africa è ricca di minerali strategici, tra cui le terre rare, litio, grafite, bauxite, manganese e cobalto, tutti essenziali per le tecnologie moderne. E che per sfruttare il valore di questi minerali sono necessari investimenti in infrastrutture, innovazione e pratiche sostenibili in loco e lo sviluppo del tessuto industriale locale. La richiesta impellente, che equivale ad un programma, è quella per cui i minerali strategici dell'Africa debbano essere lavorati prima di essere esportati, al fine di creare catene del valore e posti di lavoro per le popolazioni locali. Siamo di fronte a qualcosa di molto più potente della stessa rivolta anticoloniale: l’Africa, per salvare il clima, vuole rendersi autonoma e protagonista sulle tecnologie.
Per concludere, credo sia in atto una trasformazione epocale entro cui, da parte dei poteri dominanti, si applica su scala globale ogni sforzo per impedire un governo dei processi a democrazia sociale. Per quanto riguarda il nodo determinante dell’energia, il modo più economico di produrre oggi è a partire dal sole e dal vento. Ci si può permettere quindi di pensare ad un mondo che si basi sull’abbassamento della curva della domanda e sul 100% di offerta da energia rinnovabile. Una trasformazione che può partire subito e dovunque, anche programmando e progredendo per gradi e successive correzioni, invece che attendere decenni. Non attendere e lottare per la pace, la giustizia climatica e sociale è il fondamento indispensabile di un programma della sinistra di alternativa.


 


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NOTE


1 Benjamin Labatut Maniac, Adelphi, Milano 2023, pp. 361

2 https://essd.copernicus.org/articles/15/5301/2023/

3 https://www.reteclima.it/tipping-points-ambientali-e-riscaldamento-climatico/

4 Regolamento sull'Uso Sostenibile (Sur), che mirava a ridurre l'uso di agrofarmaci entro il 2030

5 Vedi WWF Italia

6 Andrea Capocci “La transizione che non c’è”, intervista a Jean Baptiste Fressoz in il Manifesto del 27 febbraio; il saggio cui si riferisce l’intervista è "Une nouvelle histoire de l’energie", Seuil, Parigi 2024.

7 https://www.gvmr.in/

8 https://www.linkedin.com/posts/arjun-flora

9 Vedi ItaliaOggi del 10 maggio 2023

10 Vedi Domani del 5 Marzo 2024

11 Vedi Virginia Della Sala in il Fatto Quotidiano 19 Febbraio 2024

12 Vedi Karl Shibel https://www.qualenergia.it/articoli/

13 Vedi Francesco Martone: https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2024/03/06/

mercoledì 10 aprile 2024

L’Elettrico inquina meno! PUNTO!

 


giovedì 4 aprile 2024

I PETROLIERI ARABI NON SI RASSEGNANO ALLA FINE DEL PETROLIO

Le strategie dei petrolieri arabi per mantenere il mondo dipendente dai fossili  

Gli arabi stanno lavorando per mantenere i combustibili fossili 
al centro  dell’economia mondiale per i decenni a venire, 
esercitando pressioni, finanziando la ricerca  e usando la loro
forza diplomatica per rallentare l’azione sul clima.
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Luccicante nel deserto c’è un futuristico centro di ricerca con una missione urgente: rendere più verde e rapidamente l’economia basata sul petrolio dell’Arabia Saudita. L’obiettivo è costruire rapidamente più pannelli solari ed espandere l’uso delle auto elettriche in modo che il regno Saudita alla fine bruci molto meno petrolio. Ma se a casa vogliono andare green, per il resto del mondo la loro visione è leggermente diversa... 

Bruciando meno petrolio in patria riescono a liberarne ancora di più da vendere all’estero. È solo un aspetto dell’aggressiva strategia a lungo termine del regno per mantenere il mondo agganciato al petrolio per decenni a venire e rimanere il principale fornitore mentre i rivali svaniscono.

Normalmente i rappresentanti sauditi spingono in tutti i vertici internazionali sul clima per bloccare o almeno rallentare le politiche di transizione fuori dal fossile. 

Ad esempio alla COP di Dubai, i rappresentanti arabi hanno cercato di evitare che la dichiarazione finale del vertice menzionasse l'impegno a non consumare combustibili fossili. "Il piano degli Arabi per mantenere il petrolio al centro della economia globale si sta concretizzando in tutto il mondo nelle attività finanziarie e diplomatiche saudite, così come nel campo della ricerca, della tecnologia e persino dell’istruzione. Si tratta di una strategia in contrasto con l'opinione che gode di consenso unanime nel mondo scientifico secondo cui bisogna abbandonare rapidamente i combustibili fossili, compresi petrolio e gas, per evitare le peggiori conseguenze del riscaldamento globale. 

La contraddizione  colpisce al cuore il regno saudita. La compagnia petrolifera controllata dal governo, Saudi Aramco, produce già un barile di petrolio su 10 su scala mondiale e immagina un mondo in cui ne venderà ancora di più. 

Eppure i cambiamenti climatici e l’aumento delle temperature stanno già minacciando la vita anche in Arabia Saudita, un luogo dove la desertificazione avanza come in pochi altri posti al mondo. 


Secondo la newsletter Climate Forward, il database Crossref, che tiene traccia delle pubblicazioni accademiche, dimostra che la Saudi Aramco ha finanziato quasi 500 studi negli ultimi cinque anni, comprese ricerche volte a mantenere competitive le auto a benzina o a mettere in dubbio i veicoli elettrici. Fra gli altri, c'è anche una collaborazione con il Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti per un progetto di sei anni per sviluppare  motori a benzina più efficienti, nonché studi su altri metodi per rafforzare la produzione di petrolio.

Aramco gestisce anche una rete globale di centri di ricerca tra cui un laboratorio vicino a Detroit dove sta sviluppando un dispositivo mobile per la “cattura del carbonio”, un’apparecchiatura progettata per essere collegata a un’auto a benzina, intrappolando i gas serra prima che fuoriescano dal tubo di scappamento. Più in generale, negli ultimi dieci anni l’Arabia Saudita ha versato 2,5 miliardi di dollari nelle università americane, diventando uno dei principali contribuenti all’istruzione superiore nazionale. Gli interessi sauditi hanno speso quasi 140 milioni di dollari dal 2016 per lobbisti dediti a influenzare la politica e l’opinione pubblica americana,  secondo le rivelazioni al Dipartimento di Giustizia raccolte dal Center for Responsive Politics. 

Gran parte di tale investimento si è concentrato sul rafforzamento dell’immagine complessiva del regno, in particolare dopo l’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi nel 2018 da parte di agenti sauditi. Ma lo sforzo saudita si è esteso anche alla costruzione di alleanze negli stati americani della Corn Belt che producono etanolo, un prodotto minacciato dalla diffusione dalle auto elettriche. 

Nell’ultimo anno, le aziende elettriche negli Stati Uniti hanno quasi raddoppiato le loro previsioni sulla quantità di energia addizionale di cui avranno bisogno entro il 2028, a fronte di un’esplosione della domanda di energia dei data center, di una brusca ripresa del settore manifatturiero e della crescente popolarità dei veicoli elettrici. La crescente richiesta di  elettricità potrebbe mettere a repentaglio i piani del Paese per combattere il cambiamento climatico. 

Secondo una nuova ricerca infatti, i produttori di petrolio e gas nei principali giacimenti petroliferi degli Stati Uniti potrebbero emettere tre volte la quantità di gas metano che riscalda il pianeta rispetto alle stime ufficiali. Lo studio suggerisce che le emissioni del settore dei combustibili fossili potrebbero essere gravemente sottostimate. 

Secondo un’analisi dei dati sulla temperatura provenienti da centinaia di località in tutto il mondo, l’inverno è stato inusualmente più caldo del solito per metà della popolazione mondiale, a causa dell’uso di combustibili fossili. Impossibile non vedere il ruolo che in questo fenomeno ha giocato il cambiamento climatico in diverse città del Nord America, Europa e Asia. 

Un nuovo studio sull’innalzamento del livello del mare, utilizzando dati dettagliati sui cambiamenti nell’elevazione del territorio, ha scoperto che gli attuali modelli scientifici potrebbero non catturare con precisione le vulnerabilità in 32 città costiere degli Stati Uniti. L’analisi utilizza immagini satellitari per rilevare l’abbassamento e il sollevamento del terreno e contribuire a dipingere un quadro più preciso dell’esposizione alle inondazioni sia oggi che in futuro. Un pianeta che cambia. Dopo quasi 15 anni di deliberazione, un comitato di studiosi ha respinto la proposta di dichiarare l’inizio dell’Antropocene, un’epoca geologica di nuova creazione che rappresenterebbe un riconoscimento che i cambiamenti indotti dall’uomo sul pianeta sono stati abbastanza profondi da portare il Olocene al termine. A porte chiuse nei colloqui globali sul clima, i sauditi hanno lavorato per ostacolare l’azione e la ricerca sul clima, in particolare opponendosi alle richieste di una rapida eliminazione dei combustibili fossili. A marzo, in un incontro delle Nazioni Unite con gli scienziati del clima, l’Arabia Saudita, insieme alla Russia, ha spinto a cancellare un riferimento al “cambiamento climatico indotto dall’uomo” da un documento ufficiale, contestando di fatto il fatto scientificamente accertato che l’uso di combustibili fossili da parte dell’uomo è il principale motore della crisi climatica. “La gente vorrebbe che rinunciassimo agli investimenti negli idrocarburi. Ma no”, ha detto Amin Nasser, amministratore delegato di Saudi Aramco, perché una mossa del genere non farebbe altro che devastare i mercati petroliferi. La minaccia più grande era la “mancanza di investimenti nel petrolio e nel gas”, ha detto. In una dichiarazione, il Ministero dell’Energia saudita ha affermato di aspettarsi che gli idrocarburi come petrolio, gas e carbone “continueranno a essere una parte essenziale del mix energetico globale per decenni”, ma allo stesso tempo il regno ha “fatto investimenti significativi nelle misure per combattere il cambiamento climatico”.


La dichiarazione aggiunge: “Lungi dal bloccare i progressi nei colloqui sul cambiamento climatico, l’Arabia Saudita ha svolto a lungo un ruolo importante” nei negoziati e nei gruppi dell’industria petrolifera e del gas che lavorano per ridurre le emissioni. L’Arabia Saudita ha affermato di sostenere l’accordo sul clima di Parigi, che mira a impedire un aumento della temperatura globale di 1,5 gradi Celsius rispetto ai livelli preindustriali, e intende generare metà della sua elettricità da fonti rinnovabili entro il 2030. Il regno prevede inoltre di piantare 10 miliardi di alberi nei prossimi anni. decenni e sta costruendo Neom, una futuristica città senza emissioni di carbonio dotata di trasporti pubblici veloci, fattorie verticali e una stazione sciistica. E l’Arabia Saudita sta proteggendo le sue scommesse. Il governo ha investito in Lucid, la società americana di veicoli elettrici, e recentemente ha dichiarato che avrebbe costituito una propria società di veicoli elettrici, Ceer. Sta investendo nell’idrogeno, un’alternativa più pulita al petrolio e al gas. Tuttavia, la transizione verde in patria è stata lenta. L’Arabia Saudita genera ancora meno dell’1% della sua elettricità da fonti rinnovabili e non è chiaro come intenda piantare miliardi di alberi in una delle regioni più aride del mondo.

La minaccia climatica infatti, diventa sempre più difficile da ignorare. Ai ritmi attuali, la sopravvivenza umana sarà impossibile senza un accesso continuo all’aria condizionata, affermano i ricercatori. 

Anvita Arora, che dirige la squadra di trasporti del centro di studi e ricerche sul petrolio King Abdullah, (un complesso simile a una stazione spaziale alimentato da 20.000 pannelli solari dedito a progetti solari ed eolici e tecnologie come la cattura del carbonio), afferma chiaramente:  “Se continuiamo a consumare il nostro petrolio non avremo più petrolio da vendere". 

All’inizio del 2020, Rob Port, che ospita il podcast “Plain Talk” sulla politica e gli eventi attuali nel Nord Dakota, ricevette una chiamata da persone che rappresentavano l’ambasciata saudita, che offrivano una intervista sui mercati petroliferi a un portavoce saudita. La chiamata arrivava da Dan Lederman del gruppo LS2, un’agenzia lobbystica dello Iowa che ha lavorato anche per gruppi agricoli produttori di etanolo, e una delle poche società di lobbying che è rimasta al fianco dei sauditi mentre altri tagliavano i rapporti dopo l’omicidio Khashoggi. 

Nel maggio di quell’anno, Fahad Nazer, portavoce dell’ambasciata saudita, apparve sul podcast di Port. “L'intervista difendeva gli interessi sauditi”, ha poi spiegato Port, "in particolare quello ad avere un fiorente mercato petrolifero globale”. Questa azione di sensibilizzazione faceva parte di un grande sforzo da parte di LS2 group, per conto degli arabi, che ha raggiunto stati quali Dakota, Texas, Iowa e Ohio. Secondo documenti depositati presso il Dipartimento di Giustizia, il gruppo LS2 avrebbe preso di mira conduttori radiofonici locali, accademici, organizzatori di eventi, funzionari dell'industria sportiva, un ex giocatore di football e il proprietario di un club di sci e snowboard, per un compenso di oltre 125.000 dollari al mese

Gran parte di quella campagna ha riguardato argomenti generali, come la storia delle relazioni con gli Stati Uniti. Più nello specifico "l’Iowa, il principale produttore nazionale di etanolo, veniva visto come un potenziale alleato nella battaglia dei sauditi contro i veicoli elettrici", ha rilevato Jeff M. Angelo, un ex senatore dello stato dell’Iowa che ora ospita un talk show ed è stato avvicinato dai rappresentanti sauditi. "I produttori di etanolo qui in Iowa dicono la stessa cosa: "Non è terribile che l'amministrazione Biden ti costringa a comprare un'auto elettrica quando potremmo produrre biocarburanti proprio qui in Iowa, fare soldi e sostenere i nostri agricoltori, ed essere indipendenti dal punto di vista energetico?'”. 

Un altro aspetto dello sforzo di Saudi Aramco per perpetuare le auto a benzina è rappreentato dal centro di ricerca di Detroit. Lì, i ricercatori stanno lavorando su un dispositivo innovativo che collegato a un’auto, aspirerebbe direttamente dallo scarico l’anidride carbonica che riscalda il pianeta prima che possa salire nell’atmosfera.

Il prototipo, sviluppato da un laboratorio Aramco, intrappola solo una parte delle emissioni. Ma fa parte di uno sforzo per mantenere il mercato delle auto a benzina. I trasporti utilizzano due terzi del petrolio mondiale, quindi qualsiasi diminuzione dei veicoli a benzina inciderebbe notevolmente sulla domanda di petrolio. 


È un cambiamento che Aramco vuole evitare. “I veicoli elettrici distruggeranno il petrolio?” Khalid A. Al-Falih, ministro degli investimenti dell’Arabia Saudita ed ex presidente di Saudi Aramco, ha dichiarato in un forum sull’energia nel 2019: “La risposta è no”. Saudi Aramco ha collaborato con le principali case automobilistiche, come Hyundai, per sviluppare un carburante “a combustione ultra magra” per veicoli ibridi gas/elettrico, che continuerebbero a utilizzare il petrolio. E alcune ricerche finanziate dall’Arabia Saudita introducono nuovi dubbi sui veicoli elettrici. A giugno, il Dipartimento dell’Energia ha anche pubblicato i risultati della sua iniziativa di sei anni per la ricerca su motori a benzina e carburanti più puliti, in cui si afferma che le auto a benzina “domineranno le vendite di nuovi veicoli per decenni”. Aramco e il dipartimento hanno anche collaborato alla stesura di documenti tecnici sui metodi per aumentare il flusso di petrolio dai pozzi. 

Poi però, per il più grande sconcerto del principe Abdulaziz bin Salman, ministro dell’Energia dell’Arabia Saudita (e amico e finanziatore di Matteo Renzi, vale la pena di ricordare) l’Agenzia internazionale per l’energia, istituita mezzo secolo fa per garantire la sicurezza energetica globale, aveva suonato la campana a morto per il petrolio, affermando che il mondo avrebbe dovuto smettere immediatamente di approvare nuovi giacimenti di petrolio e gas e eliminare rapidamente la benzina, per scongiurare gli effetti peggiori del cambiamento climatico. Il principe Abdulaziz ha paragonato questa idea a un film di Hollywood. "È il seguito di 'La La Land'", ha scherzato in una conferenza stampa. 

L’Arabia Saudita sottolinea che le sue ricerche petrolifere sono "pulite" e economiche. Infatti vende petrolio ad un prezzo estremamente basso (circa 7,50 dollari al barile), battendo quasi tutti i principali rivali. Rispetto al fracking negli Stati Uniti poi, può vantare anche una produzione più pulita perché il Fracking comporta una  combustione di metano enorme oltre che inconvenienti geologici e sismici.  

L’anno scorso, l’Arabia Saudita si è unita a Stati Uniti, Canada, Norvegia e Qatar in un piano per ridurre ulteriormente le emissioni dovute alle  trivellazioni. Saudi Aramco ha dichiarato l’anno scorso che avrebbe raggiunto lo “zero netto” entro il 2050. Tuttavia, tale impegno pur includendo le emissioni  derivanti dall’estrazione e dalla produzione di petrolio, esclude le emissioni di petrolio dovute alla sua combustione. “Lo vedono come un vantaggio. Pensano che se gli acquirenti cominciassero a discriminare tra barili più sporchi e barili più puliti, l’Arabia Saudita beneficierebbe di unan immagine molto migliore che gli Stati Uniti che estraggono petrolio dal bacino del Permiano” o in altri luoghi, ha affermato Ben Cahill, membro senior del Center for Strategic and International Studies. . Funzionari sauditi affermano che una rapida transizione verso le energie rinnovabili e verso veicoli elettrici più puliti porterebbe al caos economico, una visione che secondo loro è stata confermata dalle recenti turbolenze nel mercato energetico globale in un contesto di carenza di offerta e aumento dei prezzi. "L'adozione di politiche "irrealistiche" per ridurre le emissioni escludendo le principali fonti di energia porterà nei prossimi anni a un'inflazione senza precedenti e a un aumento dei prezzi dell'energia, nonché a un aumento della disoccupazione e a un peggioramento di gravi problemi sociali e di sicurezza", ha affermato il principe ereditario dell'Arabia Saudita, Mohammed bin Salman. , ha dichiarato lo scorso luglio al vertice arabo-americano tenutosi a Jeddah.


Hanno un’agenda strategica”, ha detto Saleemul Huq, direttore del Centro internazionale per il cambiamento climatico e lo sviluppo in Bangladesh, “ovvero non vogliono che succeda nulla”. Durante l’ultimo round di colloqui in Egitto, l’Arabia Saudita ha evidenziato una visione alternativa, che si basa sulla cattura e lo stoccaggio del carbonio su larga scala. Entro il 2027, il Regno costruirà un impianto in grado di immagazzinare la stessa quantità di anidride carbonica emessa in un anno da 2 milioni di auto a benzina. Sarebbe una svolta, perché la cattura del carbonio deve ancora essere dimostrata su larga scala. Eppure è il modo in cui l’Arabia Saudita si prepara ad un mondo che si riscalda, ha detto Adel al-Jubeir, inviato del regno per il clima. “In Arabia Saudita, ci impegniamo a essere all’avanguardia”. 

Quindi il modello fossile viene promosso in quanto "realistico" mentre le rinnovabili e tutti i modelli non fossili vengono bocciati in quanto "irrealistici" e non all'avanguardia.

Invece, secondo l'IPCC, (un Panel che comprende oltre duemila esperti di clima e sostenibilità) l'unica cosa "realistica" è la rapida e completa transizione dai combustibili fossili. Ce lo ricorda Mario Tozzi, nell'intervista quì di seguito.

 

INTERVISTA A MARIO TOZZI


 

 

 

 

 

Il mondo deve compiereuna transizione dai combustibili fossili” entro il 2050: questa è la vaga proposta contenuta nell’ultima versione del testo approvato all’unanimità. Nell’accordo finale, inoltre, si afferma che la comunità internazionale “riconosce la necessità di riduzioni profonde, rapide e durature dei gas serra” e a tal fine “chiede alle parti di contribuire” con un elenco di azioni per il clima. La prima azione è quella di “triplicare la capacità di energia rinnovabile” e “raddoppiare l’efficienza energetica media” da qui al 2030. Insomma, alcuni buoni propositi sembrano esserci. Ma per una valutazione sul merito ci rimettiamo alle parole dell’esperto Mario Tozzi.

Quali sono i punti più rilevanti dell’accordo raggiunto alla Cop28? Ci sono stati progressi rispetto alla Cop27?

Nessuno e non mi sembra ci siano elementi del testo finale meritevoli di interesse. Ad averlo definito “accordo storico” è stato l’amministratore delegato di una delle più grandi società impegnate nel settore petrolifero, quindi di cosa vogliamo parlare? Mi sembra piuttosto che, come successo nelle precedenti edizioni, se ne siano fregati delle vite di milioni di persone e abbiano preferito difendere gli interessi commerciali delle grandi aziende che fanno affari con i combustibili fossili.

Gli stati si sono impegnati a raggiungere l’obiettivo “emissioni zero” entro il 2050. Ma un obiettivo simile è in linea con i rapporti dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) e dell’ONU?

Assolutamente no. È necessario tutt’altro approccio ai cambiamenti climatici. La maggior parte dei Paesi pensa di poter fare tutto nel 2049, ma semplicemente perché in realtà non vogliono cambiare un bel niente. Non c’è alcun calendario che segni le tappe della riduzione dei combustibili fossili, nessuna roadmap.  Quello che sarebbe necessario fare è mal disegnato e se arriverà, arriverà troppo tardi. Ma poi dov’è questo impegno? C’è qualche Stato che ha detto “io ridurrò le emissioni del 30%? No, io non ho letto nulla di simile.

Tra i punti dell’accordo conclusivo c’è l’invito per gli Stati a triplicare la capacità di energia rinnovabile e a raddoppiare il ritmo dei miglioramenti dell’efficienza energetica entro il 2030. Soltanto parole o obiettivi realizzabili?

Sono obiettivi realizzabili, ma chi è che lo farà veramente? Non si sa. Tra l’altro, triplicare la quantità di energia proveniente da fonti rinnovabili è qualcosa che è opportuno fare quando i bisogni energetici non crescono. In questo modo si andrebbe ad agire sulla domanda di energia esistente. Ma i bisogni stanno crescendo quindi il rischio è che questo aumento delle rinnovabili riesca a coprire solo i bisogni in più, invece di agire sulla domanda attuale. Nella prospettiva che questa COP naufragasse, anche un risultato pessimo è meglio del fallimento totale e viene quindi sbandierato come un successo. Ma è una cosa che fa ridere.


 

Si dice che una transizione ecologica rapida e l’abbandono dei combustibili fossili a breve termine sia troppo costoso e irrealizzabile. Quanto c’è di vero?

Troppo costoso se la fai pagare ai cittadini. Falla pagare ai petrolieri e allora tutto cambia. Quello che andrebbe fatto è andare dalle aziende i cui interessi commerciali ruotano intorno ai combustibili fossili e dire loro: “Ora basta. Questa roba con cui avete guadagnato fino ad ora va dismessa. Investite sulle rinnovabili”.  In questo modo la transizione energetica non la pagherà il pensionato con la Panda Euro1, ma quelli che hanno realmente inquinato sino ad oggi.

Anche negli Stati Uniti si fa largo l’energia nucleare. Secondo molti garantirebbe una fornitura di energia più stabile, mentre le rinnovabili da sole sarebbero poco affidabili, perché intermittenti. È veramente così?

Dal 30 ottobre al 6 novembre di quest’anno il Portogallo ha avuto per 150 ore un’energia elettrica prodotta soltanto da fonti rinnovabili. Di cosa stiamo parlando? Come sappiamo la costruzione di una centrale nucleare richiede almeno 20 anni. E per quanto riguarda i mini-reattori nucleari,, le società statunitensi che dovevano fabbricarli si sono ritirate dall’affare perché troppo costoso e a rischio fallimento. Smettiamola di farci raccontare sciocchezze.




Reputa realistica la possibilità di una rapida inversione di tendenza?

Credo possa avvenire solo nel caso si presentino grandi traumi. Quanto sta accadendo in giro per il mondo è ancora troppo poco.

A cosa stiamo andando incontro?

Lo dicono gli scienziati: fenomeni metereologici estremi, innalzamento del livello del mare, aumento delle temperature e tante altre cose che comporteranno vite umane e perdita di tanti soldi. Paghiamo anche se non stiamo facendo niente, perché il prezzo di nessun intervento non è zero.




 

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